Sunday 10 October 2010

ANY14_ TETTONICA DELL’IMPREVISTO


 (da PARAMETRO
 252-253. ANY. Una antologia, anno XXXIV Luglio/Ottobre 2006)

L’architettura alle soglie del millennio è profondamente divisa sulla sua eredità
moderna. Antimodernismo, postmodernismo, neomodernismo sono solo alcune 
delle manifestazioni del clima intellettuale contemporaneo. I saggi di ANY 14 
hanno tutti in comune l’intenso dibattito sui concetti di modernità, sul suo 
esaurimento, rigetto, permanenza, o bisogno di riformulazione. La tettonica, 
come questi saggi dimostrano, è un teatro particolarmente complesso per il 
dibattito architettonico sulla modernità. È interessante, sulla base di quanto 
è stato detto finora, approfondire il discorso tettonico che costituisce la neurosi 
contemporanea dell’architettura circa il moderno.
La maggior parte delle teorie della tettonica ha affrontato il design arbitrario e
illeggibile che è seguito alla dissoluzione del paradigma classico dell’architettura. 
In senso filosofico, la modernità ha rappresentato la sfida alla perdita di certezza
e permanenza viste come costitutive dell’architettura del passato. Nonostante
le azioni frammentatrici del mercato delle merci industriali, le teorie moderne della 
tettonica, da Karl Schinkel a Louis Kahn, hanno mirato a creare edifici come esempi
di ordine e significato per le loro società. La fede nell’inevitabile progresso della
tecnologia industrale e nella capacità unificante dell’artista creativo è stata cruciale
per tali tentativi. Presumibilmente, il ricorso ai poteri della tecnologia razionale e
dell’arte avrebbe trasformato la cultura dell’architettura da un assemblaggio 
epistemologico di esistenze sconnesse ad una condizione metafisica di essenza 
stabile.
Gli ultimi tre decenni hanno visto l’emergere di critiche significative alle concezioni 
moderne della tettonica. È nato un discorso postmoderno, in disaccordo cronico 
coi valori fondanti la modernità—progresso, unità e trascendenza. Piuttosto che 
accettare questi concetti come vere origini o fini per l’architettura, i teorici 
dell’architettura postmoderni, da Robert Venturi in poi, hanno richiamato l’attenzione 
alle formulazioni di questi concetti nei contesti di storia, testo, e mente. 
La postmodernità architettonica, nel suo senso critico, ha svelato le favole della
modernità, le favole dello sviluppo tecnologico-materiale e della immutabilità personale. 
Nel riconoscere queste favole come fittive e spesso autoritarie, la tettonica postmoderna
ha introdotto metafore diverse, basate sulla scienza dell’era dell’informatica e sulla 
soggettività decentrata. Questi concetti, in modo del tutto diverso dai loro predecessori 
metafisici, accettano il velarsi dell’architettura in una molteplicità di esistenze irrisolte,
in un mondo privo di qualsiasi guida soprannaturale.
A partire dagli anni ottanta le reazioni contro la postmodernità hanno di nuovo capovolto
la situazione, facendo risorgere molti concetti moderni. Il recente trionfo di ironia e 
scetticismo è stato contestato da nuove posizioni morali e razionali. La tettonica 
neomoderna proposta da Kenneth Frampton è stata apertamente critica dell’eccessiva
complessità formale e del disimpegno politico della postmodernità. In effetti, molto di ciò
che viene oggi etichettato come tettonica sembra opporsi in modo palese alla decostruzione
postmoderna della modernità.
Il risultato è che la scena architettonica contemporanea—generalizzando un po’—è divisa
fra coloro che sostengono una tettonica di autenticità e stabilità—l’eco della modernità— 
ed altri profondamente critici dei limiti di queste definizioni—la posizione postmoderna.
In ciò che segue esaminerò la tettonica moderna, l’emergere di una tettonica postmoderna, 
e il conseguente conflitto fra postmodernità e neomodernità. È fin troppo facile 
caratterizzare il moderno come un periodo che ha privilegiato la chiarezza di struttura e 
tamponamento [core and infill], e il postmoderno come preoccupato solo con la 
rappresentazione. Offro le seguenti riflessioni nella speranza di ridefinire la tettonica come
un discorso aperto ed eterogeneo sui dialoghi costruttivi e rappresentativi dell’architettura.

Centrare la costruzione moderna

La fine della modernità di Gianni Vattimo (1985) analizza gli scritti di Friedrich Nietzsche
e Martin Heidegger sulla tragedia dell’esistenza moderna. Per entrambi i filosofi il nichilismo
significa lo stato nel quale niente rimane più dell’essere teistico e quindi dell’ontologia.
La morte di Dio per Nietzsche, e la trasformazione dell’essere (o essenza) in uno scambio
di valori equivalenti (o esistenza) per Heidegger, esprimono il potere e le contraddizioni 
della soggettività razionale. Vattimo descrive i grandi progetti filosofici della modernità
come reazioni alla perdita dell’ontologia (e dell’essenza). Fra gli atti di resistenza più 
celebrati egli cità il marxismo, la fenomenologia e la scienza umana positivistica.
Tragicamente, nonostante le varie intenzioni, questi progetti hanno tentato di ristabilire
l’essenza in territori che immancabilmente riportavano al panteismo. Il loro fallimento
porta alla luce la possibilità che ogni tentativo di rifondare l’ontologia finisca per esaltare
la prosa soggettiva della sua morte.
In Architettura e nichilismo (1993), Massimo Cacciari mette a fuoco l’associazione fra
le utopie moderniste e la loro lotta per negare la perdita dell’essenza architettonica. 
Cacciari individua nella metropoli capitalista il simbolo dell’equivalenza, un labirinto 
assurdo senza forma né centro: l’esistenza moderna personificata. Per Cacciari,
i progetti moderni di riordino dell’architettura e della metropoli erano destinati al fallimento
poiché centravano edifici e urbanità in un nodo epistemologico sempre più aggrovigliato
nei vari territori dell’intelletto. In modo altrettanto importante, Cacciari descrive 
come l’ornamento, la consacrazione dell’utilità da parte della soggettività, sia diventato
la pietra di paragone del nichilismo architettonico. L’ornamento, invece che essere 
l’armonizzatore di arte e tecnologia, diventa nel ventesimo secolo l’indefinito primo piano 
dell’esistenza precaria dell’architettura moderna. L’ornamento stilistico ha esteso 
la materialità costruttiva sia dentro che fuori di sé, collocando l’architettura in figurazioni 
molteplici d’un’essenza perduta.
Sia Vattimo che Cacciari rivelano le tensioni operanti all’interno del progetto moderno.
Il predicamento della modernità, come condizione di disperazione ed incertezza di fronte
alla perdita di essenza e significato, è stato la promessa e il pericolo delle strategie
tettoniche degli architetti dall’inizio dell’Ottocento fino alla metà del Novecento.
Le paure del nichilismo hanno posto alla disciplina un dilemma duraturo, e hanno dato
inizio a ricerche di un significato stabile straordinarie e molto diverse fra loro. La tettonica 
moderna, in risposta ad un’essenza disancorata, ha diretto le sue forze ben oltre
la semplice costruzione materiale e gli ovvi bisogni programmatici, già criticati ampiamente 
nell’Ottocento come inadeguati alla vocazione più alta dell’architettura: la tettonica
è stata la modernità nello spazio feticizzato, mossa da fantasie artistiche di divinazione
individuale e allo stesso tempo ossessionata da schemi che promettevano un continuo
fra natura e macchina.
Dato questo predicamento filosofico, non è mai esistito un discorso puro o autonomo 
sulla costruzione nell’era moderna. Tutta la costruzione era intrecciata coi riverberi dei
mutevoli mondi materiale e intellettuale, che continuavano a svelare una rete di strategie
ememorie testimone del desiderio centrale di ristabilire l’essenza architettonica e la finzione
di una guida soprannaturale. Il discorso della tettonica moderna può essere letto come 
l’accumulazione di centri [centerings] che costituiscono l’edificio autonomo. Il desiderio
di rendere il costruire un’essenza immutabile si è imperniato in numerosi impulsi, nascosti
e spesso dimenticati, volti ad eradicare l’esistenza arbitraria.
Per cominciare, la costruzione architettonica moderna è stata ossessionata dai centri 
dell’umile e dell’illegittimo. L’austerità eburnea di Adolf Loos ha indicato un desiderio di 
prevenire lo spreco economico e la degenerazione culturale; la razionalità lineare di 
Le Corbusier ha testimoniato dello sradicamento di sentimento e ripetizione accademica.
Centrale a molta architettura ottocentesca e novecentesca è stata inoltre l’abolizione 
dell’erotismo e della diversità corporei attraverso la promozione di oggettività scientifica
e uniformità. Nelle teorie di costruzione organica di Eugène-Emmanuel Viollet-le-Duc,
il corpo dell’architettura veniva spiegato come una forza razionale di vita, un’essenza 
produttiva che negava ogni nozione di esistenza potenzialmente inutile.
Tutti questi tentativi hanno cercato di fondare un costruire autentico ed essenziale, 
ma ovviamente al costo di sopprimere le esistenze palpabili dell’architettura. Inoltre,
i molti, mutevoli criteri che stabilivano la pretesa di un edificio all’autenticità essenziale
erano assenti dal prodotto finito—fra questi i mutevoli punti di vista di ingegneria e 
finanza, per menzionare solo due centri della costruzione oggettiva. In senso strutturale, 
la costruzione era schiava non delle forze pure della natura ma delle grammatiche calcolate
e variabili della scienza applicata. Era materialità forgiata, uno scontro di sostanze 
composte come l’acciaio e il cemento, prodotte in un processo di idratazione, laminatura
e assemblaggio. In senso finanziario, la costruzione era reificata all’interno della nascente 
economia delle merci. Più che la risposta istintiva alle leggi della domanda e dell’offerta, 
la costruzione era un’arena di negoziazioni fra curve di profitto, tassi di interesse, leggi 
sulle imposte e codici edilizi. 
In breve, la costruzione moderna non aveva una base ultima, nessun punto d’appoggio 
stabile sul quale trasportare l’architetura in nuove e sempre più difficili situazioni. Né la 
struttura né la materialità né la funzione costituivano una fondazione essenzialista per 
l’architettura. Più che assiomi eterni, i concetti tettonici moderni come il progetto della 
struttura, la composizione dei materiali e l’utilità del programma erano assemblaggi 
esistenziali. Erano coincidenze di idee ed eventi le cui pretese di permanenza apparivano
assurde non appena ne venivano considerate le specificità. Nonostante il lungo preoccuparsi,
nella disciplina, a dare statuto essenziale alla scienza delle costruzioni, tutte le 
costuzioni moderne erano ingombrate da un vasto numero di centri o esistenze di piccola
scala.
Resta un’altra enorme arena di compromesso per la costruzione architettonica nell’era
moderna: il suo contenuto artistico ed intellettuale. Gli architetti moderni hanno avanzato 
programmi di costruzione artistica sotto l’egida di elevazione spirituale e miglioramento
sociale. Tali programmi includevano teorie idealiste, come quelle di Henry van de Velde, 
circa il ruolo del genio creativo nell’unificare la vita e l’industria moderne. Questi programmi, 
inoltre, avevano a che fare, nel registro più basso degli affari commerciali e 
dell’avanzamento sociale, con le volgarità rapaci dell’arte, con le sue adorne costruzioni che 
annunciavano nostalgia, orgoglio o avarizia. In ogni caso, gli interessi artistici hanno
complicato la costruzione, smussando geometrie severe, facendo oscillare in frequenze
impensate i suoi interessi di ingegneria e finanza.
Sebbene la tettonica moderna si sia mossa dall’enfasi iniziale di Karl Bötticher sullo storicismo 
verso il fascino dell’astrazione materiale della metà del Novecento, essa non ha mai
posto la costruzione come una condizione di essenza. Una moltitudine di pratiche furiose
si è sempre contrapposta ad ogni trinceramento di un significato stabile. La tettonica è 
sempre stata un dialogo sulla sospensione della costruzione fra le due nuove forze
rivoluzionarie dell’architettura moderna: l’oggetto industrializzato e il soggetto estetizzato.
L’ideale della tettonica moderna corrispondeva all’assoluta soggettività. Era individuato nell’immaginazione della mente, nelle profondità dell’anima, in un ethos di simbolismo 
comunitario (o nazionale). Il reale corrispondeva alla natura osservabile e alla fabbricazione 
tecnologica. Abbracciava la varietà scoperta nel mondo esplorato e nella nascente 
economia industriale. Eppure, nonostante le intenzioni di armonia perfetta, la tettonica
moderna ha prodotto una condizione di poliglottismo: l’incontro non assimilabile di voci 
opposte, di impulsi emergenti e residuali, di forze egemoniche e di resistenza. La tettonica
moderna è stato il tentativo di conciliare queste forze, operazioni di causalità forzata e 
sistematizzazione esclusiva. Con così tanti punti di vista inconciliabili, la tettonica moderna
è stata in definitiva privata del terreno che aveva cercato di assicurarsi. Il predicamento
della modernità—uno stato di sospensione—ha contribuito non poco all’emergere del
postmoderno.
Inversione e postmoderno
Già nell’era moderna, la tettonica era spaccata fra impulsi di chiusura e apertura. Certo,
molti architetti e teorici (in particolare Ludwig Mies van der Rohe e Sigfried Giedion) furono
sedotti dalla visione utopica di un’architettura perfettamente industrializzata: 
prefabbricazione e produzione standardizzata, scheletri di solo acciaio, muri di vetro che 
svanivano. Altri architetti (come Carlo Scarpa) hanno preferito drammatizzare in modo 
personale le perverse sindromi dell’esistenza moderna, come la tensione fra materiali 
consueti e nuove situazioni strutturali, o tra la memoria dell’architettura e il suo ethos
moderno di istantaneità. In ogni caso, la tettonica era il teatro delle reazioni al tumulto
della costruzione industrializzata e della soggettività emergente, la trasformazione
individualistica della materia terrena in prodotto sociale plasmato dalle forze di
meccanizzazione e mercato. La modernità, almeno implicitamente, era una condizione
irrisolta e multivalente almeno quanto la postmodernità.
A partire dagli anni sessanta il progetto filosofico della postmodernità ha svelato questa 
condizione, scavando nel nichilismo modernista e nel fervore ontologico. Gli scritti 
determinanti di Thomas Kuhn hanno confutato lo statuto oggettivo della scienza,
sostenendo che essa è palesemente determinata da interazioni sociali e motivazioni 
psicologiche. L’arte, come è stato sostenuto da Jacques Derrida nella sua critica alla
soggettività e al trascendentalismo, non meritava la centralità assoluta guadagnata 
nell’era dell’estetica filosofica. Tale pensiero critico è certamente apparso anche in 
architettura, dove l’industria produttiva e la soggettività assoluta sono state efficacemente 
criticate come le principali parabole-guida della tettonica. Per molti pensatori e
professionisti, l’egemonia a lungo goduta dalla fabbricazione industriale o dall’immaginazione 
individuale—verità costruttiva o unità estetica—è ormai finita.
L’aspetto principale della tettonica nell’era postmoderna è la rimodellazione creativa 
della tettonica moderna, un cosciente mettere in questione l’armonia claustrofobica 
e la violenza subliminale della modernità. In tale tettonica postmoderna emergono nuovi
mondi di postindustrializzazione e parasoggettività, e i passati poli di reale materiale e
ideale soggettivo perdono la loro validità. In realtà essi possono addirittura essere invertiti. 
Postulare la struttura come una traiettoria della conoscenza e la creazione artistica
come una dissoluzione dell’io sono fattori cruciali per tale inversione.
L’ideale dell’architettura non è più situato in modo preminente nella soggettività umana o
nella spiritualità divina, ma piuttosto nel territorio della tecnologia: attraverso la 
manipolazione del desiderio individuale tramite il flusso di informazioni, i sistemi di realtà
virtuale e gli organismi cyber. Qui, tra forze che corrispondono al territorio del reale—in 
quanto includono la molteplicità, la rappresentazione e la manipolazione meccanica—si 
attua l’interazione soggettiva idealizzata. Qui, le consuete divisioni tra mano e macchina, 
organico e artificiale, locale e universale, vengono cancellate. Lo spazio dell’innovazione 
tecnologica, la rete di comunicazione elettronica, possono essere visti come l’appropriazione 
postmoderna della concezione moderna dell’immaginazione individuale come il solo tessuto 
connettivo fra l’anima divina e la materia naturale.
Allo stesso modo, il reale postmoderno dell’architettura sembra oggi più incline a trovare
le basi della soggettività nel linguaggio, nella vita quotidiana, nelle relazioni sociali e nelle
associazioni istituzionali. Piuttosto che un Io sovrano e universale, il soggetto è concepito 
come irretito, frammentato, delimitato da relazioni intertestuali e dai loro vincoli ed eccessi. 
Nozioni come varietà, profanità ed intenzionalità, un tempo applicate a struttura e
programma, trovano ora sbocchi nell’arte e nell’autocoscienza. L’io inviolato è riportato
ad un mondo di impulsi corporei e pose sociali. In questa dimensione allargata, il soggetto 
decentrato diventa il reale del fare architettonico.
Quali sono le implicazioni dell’invertire la posizione di ideale e reale in rapporto alla tettonica?
Da un lato l’estetica ibridata (o un reale postmoderno) potrebbe accettare i tentativi degli 
architetti di creare costruzioni prosaiche che non rifuggano da impurità terrene. 
Questa valorizzazione della sensibilità potrebbe ampliare l’antico progetto dell’architettura 
di cercare una figurazione gerarchica e spirituale attraverso la presa in considerazione 
dell’ibridità culturale: gli incroci di frange sociali [backwater], massa saturata dai media, 
e intellettuale cosmopolitano, per esempio. In questi spazi sovrapposti, un’estetica 
ibridata ha il potenziale di portare l’architettura fuori dal paradigma Cartesiano e dentro 
gli abbracci forzati e scioccanti della vita reale.
Dall’altro lato una struttura elettrizzata (o un ideale postmoderno) potrebbe accettare 
gli esperimenti di progetto di membri costruttivi e programmi funzionali come schemi retorici. 
Grazie ai sempre più coevi linguaggi di disegno, calcolo, esposizione e produzione, gli 
elementi pragmatici e rappresentativi dell’architettura hanno già una simbiosi interna 
significativa. La teoria, a questo proposito, non è né premonizione né riflessione a 
posteriori [forethought ... afterthought]. È un’attività contingente all’interno delle esigenze
più semplici dell’architettura. La progettazione al computer, per esempio, può elettrizzare
l’analisi meccanica dei movimenti—ad esempio, carichi e statica—in più ampie indagini 
nelle emozioni—motivazioni e affezioni.
Dove possiamo localizzare una tettonica postmoderna? Per cominciare, due progetti,
la sede della Disney Corporation a Times Square di Arquitectonica e la Torre di Leonforte
in Sicilia di Jorge Silvetti e Rodolfo Machado, confermano una preoccupazione postmoderna
con l’oratoria. Questi progetti inscrivono la condizione sospesa della costruzione in parodie 
costruite del corporate entertainment e in ironie dell’alienazione personale. Certamente, 
al contrario della tettonica moderna, essi drammatizzano intenzionalmente la vulnerabilità 
dell’architettura al peso di tentazioni e scelte, alla pienezza dello spettacolo umano.
In forma diversa, la Mill Road House di Monica Ponce de Leon e Nader Tehrani (Office Da)
inverte la strategia della tettonica moderna di rappresentare i carichi strutturali attraverso
relazioni graduate sulla facciata. Qui la superficie dell’edificio aumenta in trasparenza 
dall’alto in basso e non al contario, come ci si aspetterebbe. Le opposizioni tradizionali
tra spazio interno strutturato e rivestimento esterno cadono nel momento in cui il piano 
della facciata—il posto dove meno te lo aspetteresti—assume una risonanza spaziale
immateriale. La mitologia del nucleo familiare americano nel suo domicilio privato è trasposta
nella esperienza costruttiva storica di quella istituzione.
Nei recenti edifici per Chicago di Doug Garofalo, specificamente la Dub House e la Strauss
House, un linguaggio di programma invertito detta le decisioni di composizione esterna e
i campi di colore. Se normalmente sono gli spazi pubblici interni della casa a dominare nella 
composizione esterna, qui le stanze da letto private diventano i dispositivi primari di 
espressione all’esterno. E piuttosto che stabilire continuità materiali o geometriche con un 
paesaggio romanzato di prateria tipo Frank Lloyd Wright, le case suburbane di Garofalo 
stabiliscono discontinuità critiche (in termini di colori sgargianti e forme angolari) coi loro
contesti di trapianti stilistici e sogni consumistici.
Chiaramente, come per la tettonica moderna, la tettonica postmoderna è interessata alle
relazioni tra struttura, programma e rappresentazione. La grande differenza è che queste
relazioni sono oggi più spesso giustapposte in modo incerto che risolte in modo armonico. 
Per dirla in breve, ciò che più conta è il predicamento di esistenze multiple e non quello
di essenze stabili.
Georges Teyssot, nel suo “The Mutant Body of Architecture” (1994), definisce queste
attitudini come una condizione di esteriorità—opposta alla riflessione esternata di una 
struttura interna rigida che aveva prevalso nella modernità. Nel descrivere l’architettura 
di Diller + Scofidio, Teyssot interpreta il loro approccio come un esame spietato delle 
esteriorità che hanno luogo tra le finzioni di soggettività e l’edificio. Quindi, invece di 
struttura e programma che producono emblemi di unità soggettiva e trascendenza, come
sarebbe stato nella tettonica moderna, le complessità nel percepire la corporalità di un 
edificio ora lavorano a demolire l’unità fittiva di coscienza soggettiva e struttura integrativa.
Gli architetti stessi caratterizzano la loro Slow House come “semplicemente una porta 
che conduce a una finestra”, un “ingresso fisico per una viaggio ottico”. La tettonica
postmoderna è un tentativo di sgonfiare pose essenzialiste e differenziazioni nette tra
verità e falsità, autenticità e artificialità, costruzione e natura. La tettonica postmoderna
è sperimentazione architettonica tra i confini delle consuete opposizioni interne della
disciplina, l’imprevisto che fluttua fuori dallo stabile.
Effimero e duraturo
Il fascino della tettonica postmoderna è forte specialmente nei circoli architettonici che 
privilegiano la teoria e le relazioni extradisciplinari. Ciononostante, sarebbe uno sbaglio
credere che le sensibilità postmoderne siano nettamente subentrate ai loro predecessori
moderni. Aspetti di idealismo e oggettività modernista sono ancora alla base di gran parte
del design e della critica archittonica contemporanei, soprattutto quei progetti che
invocano il nome tettonica. Il Museo di Arte Romana di Mérida di Rafael Moneo è un buon
esempio di tettonica neomoderna. L’aggiornato sistema strutturale dell’edificio è in 
cemento, mentre il suo rivestimento esterno si oppone alla contemporaneità con un 
sistema di mattoni antico [ancien brick regime]. Continuità e differenze nel tempo sono
evocate grazie alla manipolazione di nuove relazioni materiali (mattoni giuntati a secco)
e antiche memorie materiali (archi romani e volte a botte). La filosofia di progetto di Moneo
è minimalista, dichiaratamente interessata ad una materialità rigorosa, e desiderosa di 
esprimere un messaggio di durabilità architettonica opposta all’effimerità.
Per gli architetti e i teorici neomoderni, la postmodernità, il poststrutturalismo e le teorie 
della rappresentazione sono diventati le macchie nere sulla mappa della tettonica 
neomoderna. Le loro economie sono aspramente criticate come economie di superficie
piuttosto che di profondità, artificio piuttosto che autenticità, instabilità piuttosto che
stabilità. Complessità e perplessità epistemologiche sono viste come una forma di sconfitta.
Ciò che non appare a prima vista, comunque, è il fatto che la tettonica postmoderna 
è narrata con le stesse opposizioni del neomodernismo. Sia la tettonica neomoderna 
che quella postmoderna, quelle che oggi vengono chiamate retroguardie e avanguardie, 
condividono una premessa comune. I teorici della tettonica di tendenza noemoderna, 
nonostante le loro speranze di ideali estetici duraturi, di espressioni regionali definibili, 
e d’una tecnologia artigianale, diffidano dei grandi racconti che hanno definito l’epoca 
moderna. Essi semplicemente non condividono l’isteria alla perdita di essenza che ha dato
luogo agli autoritari progetti modernisti. La teoria della tettonica di Frampton, per esempio, 
riconosce che l’autenticità costruttiva e la vitalità regionale non possono essere provate
in termini di verità oppure ricorrendo ad una condizione esterna, ma devono essere 
sostenuti da un programma di resistenza che dipende da poteri contestabili, retorici. 
Diversamente dalle precedenti teorie della tettonica, Frampton non ha nessuna fede in
un destino teleologico. Inoltre, anche la passata distinzione umanistica fra stile alto e
basso è stata ampiamente abolita. La tettonica neomoderna, in generale, non discrimina
fra il nobile e l’umile, fra quelle azioni che si confrontano ad un mondo spirituale divino e
quelle di un mondo umano comune. 
Per queste ragioni, la tettonica postmoderna non è vista come un’anatema dalla tettonica 
neomoderna, come si potrebbe pensare in un primo momento. Dopotutto, la tettonica 
postmoderna condivide con la tettonica neomoderna il rigetto di ogni ideologia di 
progresso cieco o omogeneizzazione globale. Ambedue le azioni condividono una visione
del mondo come caratterizzato da frammentazione, conflitto e alterità. Le differenze si
riducono alla scelta tra risolvere (spesso riesumando associazioni storiche) oppure 
drammatizzare (spesso sperimentando con i loro aspetti antiquati) le esistenze effimere 
dell’architettura—non negandole o ignorandole come avrebbero fatto i moderni. Inoltre, 
la resistenza alle curve di profitto delle merci e alla standardizzazione corporativa non è
affatto un monopolio della tettonica neomoderna. Come si è visto, la tettonica 
postmoderna prende direzioni di resistenza al predicamento dell’architettura all’interno 
dei suoi impieghi socioeconomici come il consumismo e i valori familiari.
La posizione critica della tettonica postmoderna è che l’architettura non può né ritirarsi
dal mondo né risolverne i problemi. Come attività modulata dall’arte e dall’intelletto, ma 
anche dalla tecnologia e dagli affari, la costruzione architettonica deve immergersi nelle
grandi guerre culturali del suo tempo. Come è stato per l’era moderna, la tettonica deve
oggi investire il proprio tempo, le forme non familiari, le operazioni tecniche, e le opinioni 
della fine del millennio. La tettonica è sempre stata un discorso sull’architettura attraverso
i termini dello spostamento [displacement], precedentemente scaraventata dai grandi
racconti storici lontano dall’incontro unico col quotidiano, e oggi immersa nel presente
attraverso la penetrazione nella coscienza di una figurazione non-razionale, non-
trascendente.
Una tettonica postmoderna di estetica ibridata e struttura elettrizzata costituisce una 
critica necessaria dei valori di autenticità, universalità e positivismo che hanno sostenuto
gli schemi architettonici di essenzialismo per gran parte dei due secoli passati. Essa mostra
la tensione irriducibile di interazione e produzione umane in un mondo senza un Dio divino
e senza dei umani.
Perciò, la sfida negativa di tutti gli approcci tettonici è di resistere all’impulso di sanare 
le antinomie dell’esistenza architettonica contemporanea con una metafisica essenzialista.
La sfida positiva è di entrare nei gesti di tali antinomie, di investire le zone rappresentative
di tensione che sono isotrope alla cultura della costruzione. La tettonica non è né autenticità 
duratura né frammentazione irrazionale. Piuttosto, fra questi due poli, la tettonica è complice
dei sobri e instabili piani di costruzione, del mestiere virtuoso e dell’esposizione indecente, 
dei monumenti dell’architettura alla sua identità non assimilabile.

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